Il fantasma di Moro, il carcere con le Br Negri si racconta: parte seconda

dal Fatto quotidiano del 18 gennaio 2018

Con il primo volume della sua autobiografia, scritta a quattro mani con Girolamo De Michele, Toni Negri aveva lavorato sulla propria formazione intellettuale e sul racconto dell’esperienza militante lungo tutti gli anni Settanta.

Con il secondo volume, Galera ed Esilio, storia di un comunista (Ponte alle Grazie, 448 pg, 19,50) in libreria dal 18 gennaio, è costretto a narrare la vicenda che più di ogni altra ne segna la vita e a fare anche lui ancora i conti con il “fantasma Moro”.

La galera, per Negri, è uno shock anche se l’aveva messa in conto. Ma non avrebbe mai pensato di vivere la “vicenda kafkiana” di un’accusa per “insurrezione armata contro i poteri dello Stato”. Negri sarebbe il capo delle Brigate rosse e responsabile del sequestro e omicidio di Aldo Moro. Subisce riconoscimenti all’americana circa la sua presenza in via Fani e sulla telefonata che avrebbe fatto alla famiglia Moro per annunciarne l’assassinio. L’Espresso allegò al settimanale un dischetto con la registrazione della telefonata: “Fai da te la perizia telefonica”, invitando i lettori a riconoscere la voce di Negri.

Nel carcere le vicende si fanno drammatiche. L’arrivo nella cella a Rebibbia avviene “in un braccio svuotato del carcere: soli compagni, a 20 metri, Liggio e Vallanzasca”. Questi lo chiama dalla finestra e Negri “non sa se rispondere: ignora che è doveroso farlo nell’etica carceraria”. È niente rispetto a quello che accadrà quando gli arrestati dell’area dell’Autonomia operaia dovranno vedersela con i detenuti delle Br. La convivenza è dura, gli uni si sentono schiacciati dagli altri i quali a loro volta temono di essere denunciati. Nel carcere speciale di Palmi la convivenza con le Br arriva fino alla minaccia di morte per l’ex professore padovano: “Quando, discutendo con Franceschini, espresse l’opinione che, se era vero che i compagni tedeschi a Stammheim (la banda Baader Meinhof, ndr), erano stati uccisi dallo Stato, pure nella situazione in cui il loro estremismo li aveva cacciati, il suicidio era immaginabile”. Apriti cielo, i brigatisti si sentirono criticati nella loro azione politica. Ancora più dura sarà nel carcere speciale di Trani, dove per tre giorni una rivolta mette a soqquadro la prigione e autonomi e Br si trovano fianco a fianco anche se la direzione della rivolta è delle Br. Scatta da qui un percorso di aperta dissociazione che finirà per rendere pericolose le frequentazioni con quei detenuti: “Nell’ora d’aria, il cortile poteva nascondere un Caino che preparava il cordino per strangolarti”.

Negri uscirà dal carcere nel 1983, grazie all’elezione in Parlamento con il Partito radicale. Nel frattempo è in cella da quattro anni e mezzo, tutti di carcerazione preventiva, e le accuse vengono modificate nel tempo. Quell’elezione è sponsorizzata a sinistra, in particolare da Rossana Rossanda del manifesto, che sarà delusa invece dalla fuga, ma l’artefice è Marco Pannella, capo dei radicali: “Pannella lo conosco da sempre, dai tempi dell’Unuri (…) c’è sottesa fra noi una sorta di generazionale fratellanza… Mi piace ascoltarlo, tuttavia è quasi impossibile interloquire”.

L’operazione viene preparata con cura e riesce, i radicali ottengono 800 mila voti e Negri viene eletto. La Dc chiederà al presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, di non farlo entrare, inutilmente. Si apre subito la partita dell’autorizzazione a procedere che alla fine viene concessa anche se la richiesta di sospensiva spacca la sinistra e non passa proprio a causa dei 10 voti del Partito radicale. E a un Pannella, “Guru traditore”, Negri riserverà ben altri trattamenti più tardi, fino ad apprezzare lo sputo in faccia a Pannella da parte del Pci Giancarlo Pajetta: “Ha fatto bene”.

Paradossi di una vicenda complicata che si conclude, prima dell’esilio, con la fuga in Francia, “l’evasione” su una barca dal porto di Punta Ala fino in Corsica. Per questo Negri dovrà affrontare la delusione di molta sinistra fino a essere considerato un traditore da molti dei suoi ex compagni. In Francia però riesce a reinventarsi una vita di studi e di nuova elaborazione politica, “un aggiornamento dell’operaismo” con i seminari al College international de philosophie la fondazione della rivista Futur antérieur e che si concluderà con Impero scritto con Michael Hardt a cui il volume in libreria è dedicato.

Negri, in appello, verrà condannato a 12 anni (contro i 30 del primo grado) mentre molti suoi compagni del “7 aprile” saranno assolti e altri condannati a pene di 3 o 4 anni. Oggi, l’emblema del “cattivo maestro” è invece uno degli intellettuali italiani più noti all’estero tanto da alimentare quella “Italian theory” a cui si guarda con attenzione anche negli Usa. Il fantasma di Moro, quarant’anni dopo, è ancora lì a condizionare la politica italiana.

Vitalizi, si potevano abolire dieci anni, ma l’Ulivo si voltò dall’altra parte

I vitalizi dei parlamentari forse cambieranno. La riduzione prevista dalla legge approvata dalla Camera dovrà passare al vaglio del Senato il quale non è detto che seguirà la decisione presa a Montecitorio. Grande dibattito politico e sulla stampa se la mossa renziana, spinta però dalla pressione M5S, sia un regalo all’antipolitica, l’anticamera del suicidio dei partiti, così come avvenne nel 1993, o invece un’occasione di rigenerazione.

A chi scrive viene in mente però che una tale discussione fu rimossa automaticamente dieci anni fa quando il tema della “casta” già era stato posto e quando erano evidenti lo scollamento e la sfiducia tra ceto politico ed elettori. Per quello nel 2007, qualche mese prima del VaffaDay grillino dell’8 settembre, avevo presentato alla Camera il progetto di legge che si può leggere integralmente qui.

La sostanza era semplice: dimezzamento della retribuzione dei parlamentari, abolizione dell’assistente parlamentare pagato dal parlamentare stesso, ma soprattutto fine dei vitalizi. Nell’unico modo coerente per recuperare un rapporto tra rappresentanti e rappresentati: equiparare le regole per il pensionamento dei parlamentari a quelle di tutti gli altri. Il sistema sarebbe stato cristallino: gli anni di mandato elettivo avrebbero contribuito ad alimentare i contributi versati nelle casse previdenziali di appartenenza e si sarebbero sommati a quelli della propria carriera lavorativa. Se non si avessero gestioni previdenziali in essere si sarebbero versati i contributi nella gestione separata Inps dove già confluiscono, ad esempio, i contributi dei lavoratori precari. In questo modo, in realtà, ai deputati e senatori sarebbe rimasto ancora il privilegio di un periodo contributivo “ricco” in virtù della retribuzione ottenuta dal mandato parlamentare che, però, quel progetto di legge riportava a un ammontare cospicuo ma coerente con lo status: circa 5000 euro al mese contro i 14.000 odierni.

Chi oggi parla di ricostruzione del centrosinistra e di nuovo spirito dell’Ulivo dovrebbe ricordare come e perché quel centrosinistra è stato seppellito dalle urne e dalla storia. E se, a quel tempo, si fosse prestato ascolto a chi chiedeva di ricostruire una connessione tra la classe politica e il popolo e di restituire alla politica stessa un po’ di quello “spirito protestante” non riconducibile certo a una ideologia massimalista o di sinistra, le cose, forse, sarebbero andate diversamente. E oggi non saremmo a dover applaudire una legge sui vitalizi che, incapace di andare al fondo del problema – equiparare cioè la vita parlamentare con il resto della vita lavorativa – introduce il precedente pericoloso di una revisione previdenziale a carattere retroattivo. Quanto scommettete che prima o poi ce la faranno pagare applicandola anche a noi?

Riecco la lista di sinistra: tanti auguri anche se non ci salverà

Con il pretesto di rianimare questo blog (che si occupa solo di opinioni personali che non coinvolgono in nessun modo le strutture in cui lavoro o con cui collaboro), due cose sui tentativi di formare una nuova sinistra.

Ho seguito la convention al teatro Brancaccio, che di convention della sinistra ne ha viste tante, a partire dalla fondazione del Movimento per la Rifondazione comunista e ne ho ricavato la convinzione che i giudizi possono essere espressi da due punti di vista.

Da quello degli oragnizzatori della convention, il bilancio è senz’altro positivo. Le varie anime della sinistra si sono presentate all’appuntamento, compreso Massimo D’Alema. Certo, sul piano meramente organizzativo, quando si smetterà di pensare solo alla sequenza orizzontale di interventi per lo più identici e si cercherà di costruire appuntamenti tematici e/o di svisceramento di alcuni temi cruciali – al tempo dei Social forum si discuteva ore prima di definire le modalità di un meeting pubblico – sarà sempre troppo tardi. Così come quando si recupererà un di più di trasparenza, magari illustrando a inizio riunione l’elenco di chi dovrà intervenire spiegandone chiaramente i criteri di selezione.

La riunione è riuscita soprattutto per un motivo tutto politico: ha collocato l’iniziativa di una sinistra alternativa al Pd al centro dello scacchiere, ha costretto le altre propensioni a uscire maggiormente allo scoperto e ha dinamizzato la discussione. Tanto che osservatori speciali, come Paolo Mieli sul Corriere della Sera, hanno subito avvertito dei rischi di una sinistra troppo “estremista” e incapace di pensare alle dovute alleanze. Critiche che il Corsera muove a qualunque cosa si muova a sinistra dall’inizio degli anni 90.

E’ stato un successo, invece, rimettere intorno al tavolo tutti, da Sinistra italiana a Rifondazione comunista, dal Mdp di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema a Possibile di Pippo Civati passando per la sempre esaltata “sinistra sociale”, Fiom in testa. L’operazione, allo stesso tempo, ma sempre restando all’interno delle motivazioni e delle attese di chi l’ha promossa, sconta un limite evidente: l’elettoralismo. Tutta l’assemblea è stata pervasa da questo unico aspetto: mettersi insieme in vista delle elezioni, costruire una lista competitiva, “a due cifre se no non serve”, come improvvidamente annunciato da Tomaso Montanari, promotore, insieme ad Anna Falcone, dell’incontro. Visti i tempi, si può legittimamente sperare in una chance elettorale alternativa al Pd e non lasciare una parte del campo politico scoperta. E da questo punto di vista, non fa nessuno scandalo che si mettano insieme tutti quelli che ci stanno e che condividono un programma comune, anche se si chiamano Massimo D’Alema. Vedano loro se riusciranno a costruire un programma coerente e convincente , se il progetto sarà davvero alternativo al Pd, e se sarà dotato di appeal elettorale. In fondo, è legittimo tentare, come ha tentato, con qualche successo e qualche ammacco, Jean Luc Melenchon in Francia.

Il problema, ecco l’altro punto di vista, è se davvero ci salveranno le scommesse elettorali. Sul piano della stretta emergenza sembra di sì: il razzismo di Salvini, la demagogia di Renzi e anche l’involuzione del M5S chiedono questa risposta. Ma servirà? Anche se si dovesse affermare una forza a due cifre, il 10%, a sinistra del Pd, al di là della naturale soddisfazione per una sinistra che riequilibra i rapporti di forza parlamentari, che impatto strutturale potrebbe avere questo dal punto di vista sociale? In oltre venti anni di fortune alterne sul piano elettorale – chi scrive ha vissuto anche la fase del Prc all’8% quando alla sua destra c’erano i Ds e non il Pd di Renzi – la società italiana si è sgretolata sul piano dei vincoli di solidarietà e sul piano della coscienza civile. Pensare che il voto del 4 dicembre sul referendum costituzionale abbia invertito questa tendenza è una illusione pericolosa che contribuirà a commettere nuovi e più gravi errori.

Più legittimo ipotizzare che un buon risultato, a cui per forza di cose fare da contraltare un cattivo risultato del Pd, servirebbe a mettere definitivamente in crisi Matteo Renzi, scalzandolo dalla segreteria Pd, per riaprire, così, i confini delle alleanze politiche. Del resto, non governano insieme al Pd in molte città anche quelle forze di sinistra-sinistra che sul piano nazionale dicono “mai con il Pd”? Lo scopo di fondo sembra oggi essere questo e la vicenda di Giuliano Pisapia lo dimostra. Anche per questo, al momento, sembra più probabile che si allestiscano due liste di sinistra, una alleata al Pd e l’altra no, a meno che non sia Renzi a risolvere il problema chiudendo le porte a ogni dialogo con Pisapia e compagni.

Anche per questo la sfida per qualsiasi sinistra si pone direttamente sul terreno della ricostruzione sociale del proprio agire e della riedificazione culturale della prospettiva – si veda il lamento di Bruno Trentin raccolto nei suoi diari per capire quanto tempo è stato perduto. Sociale, per capirci, significa quanta società si struttura attorno a valori di solidarietà e mutualismo, quanti legami si tengono vivi, nelle lotte, nelle vertenze, ma anche nella vita quotidiana, quanto riparo riesce a essere edificato contro l’austerità e la crisi incessante dell’economia globale. “Se otteniamo un buon risultato elettorale, poi ci occuperemo meglio anche di questo” propongono in tanti. La storia passata non conferma questa ambizione.

Sul terreno sociale, infatti, a parte esperienze generose di sindacalismo conflittuale e ampie aree di solidarismo cattolico o comitati locali ed esperienze, ancora solo esemplari, di mutualismo economico e civile, non lavora e non si interroga nessun frammento della sinistra frammentata. Recentemente Sinistra Italiana è parsa scoprire il problema ma solo istituendo un fondo di sostegno (peraltro finanziato con soli 100.000 euro) senza andare oltre. Se n’era parlato all’interno della Coalizione sociale promossa dalla Fiom di Landini, ma è stato solo un dibattito finito troppo presto.

Se davvero si vuole risalire la china, dal punto di vista storico, sociale e culturale, la questione è posta da tempo e i protagonisti principali del dibattito di quel che resta a sinistra ne sono anche consapevoli. Salvo, però, dedicare tutte le proprie energie alla scommessa elettorale, magari fine a sé stessa e senza prospettive. Qui sta il limite del Brancaccio e delle iniziative analoghe. Qui, il nodo dei compagni di strada che si scelgono, funzionali alle strade che si vogliono intraprendere. Se l’orizzonte è tutto elettorale, allora è chiaro che la sinistra può riunirsi anche con D’Alema e compagni; se la prospettiva fosse quella della ricostruzione del tessuto sociale e delle idee necessarie a consolidarlo, la compagnia sarebbe tutt’altra. E forse non si porrebbe nemmeno il problema delle elezioni.

La disperazione di Trentin per la fine della sinistra

Un lucido lamento disperato per la fine della sinistra. I Diari di Bruno Trentin appena pubblicati, a dieci anni dalla sua morte, dalla casa editrice della Cgil (Bruno Trentin, Diari 1988-1994,Ediesse, 510 pg.) restituiscono le angosce psico-fisiche di un dirigente sindacale che incorpora, anche nella depressione, il cambio d’epoca e lo smarrimento della sinistra.

Il crollo del muro di Berlino, la fine dell’Urss, lo scioglimento del Pci, Tangentopoli, la crisi valutaria, la morte di Falcone e Borsellino, l’avvento di Silvio Berlusconi. Il fiato non basta a leggere in sequenza gli avvenimenti storici che si accavallano in quei cinque anni. L’allora segretario della Cgil, chiamato a dirigere il sindacato nel pieno di una crisi e dall’alto di una storia che lo aveva portato, da segretario della Fiom, a guidare l’autunno caldo, ne scrive in modo doloroso nei diari, pubblicati su iniziativa della compagna, Marcelle Padovani (Marie) e grazie al lavoro della Fondazione Di Vittorio della Cgil e di Iginio Ariemma.

Il libro si è già segnalato alle cronache soprattutto per i giudizi impietosi su alcuni personaggi. Dall’ “isteria e rancore monomaniaco” di Achille Occhetto, di cui si sottolinea a più riprese “la povertà culturale” al “lucido ed equilibrato” Massimo D’Alema che “sarà un buon segretario, ma non un riformatore” anche perché “i progetti non lo interessano se non sono la giustificazione di un agire politico”; dall’“avventurismo mascalzonesco” di Fausto Bertinotti con il suo “movimentismo parolaio”, al “vuoto progettuale” di Giorgio Napolitano; dalla “forsennata ambizione” di Giuliano Amato fino alla cultura da “mercanti di tappeti” di Cisl e Uil. Va meglio a Romano Prodi e al suo “corrucciato narcisismo”, molto peggio all’ex Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, “meschino e avido commis del capitale e traditore dello Stato”. Non si salva la Cgil dove Luciano Lama agita “una guerra per bande”, né l’amico Pietro Ingrao, i cui discorsi “attestano un dilettantismo retorico e narcisistico e sono anche un mio fallimento come quello di tutta una generazione”. Viene coinvolta anche Rossana Rossanda con i suoi “penosi balbettii”.

Il rancore amaro, non pensato per la pubblicazione, esprime la disperazione, letterale, per una sinistra immersa in “una cultura politica meschina (…) l’altra faccia, laida, dello sgretolamento del sistema comunista nell’Europa dell’Est, la vanificazione grottesca di decenni di lotte, di sacrifici, di lutti, di odi e passioni”. Trentin sente la crisi storica del movimento operaio: “Questi 40 anni che sono tutta la mia vita e prima ancora gli anni che vanno dalla prima guerra mondiale ad oggi sono stati irrimediabilmente perduti per tre quattro generazioni”. Di fronte al tracollo a Est si rende conto che “ciò che non sarà mai più come prima è la possibilità di contare sulla fiducia di milioni di uomini e di donne nell’ineluttabilità della storia”.

Solo un’altra testimonianza, ben più tragica, ha fatto coincidere così esattamente la disperazione politica per la fine di una utopia con quella esistenziale, il suicidio di Lucio Magri. Anche Trentin ha desideri di morte – “mi pare di dovermi gettare ai margini di un sentiero e morire” -, ma resta immerso nella depressione, appena dilatata dalla bellezza delle scalate in montagna e dalla montagna, letterale, di libri che legge e cita in continuazione, anche in inglese e francese.

La lettura imponente è la prova vivente dell’assillo: la soluzione alla crisi è il progetto, la discussione sull’identità e sui programmi. A Occhetto che vuole “solo cambiare il nome, poi si vedrà” propone una Conferenza programmatica, scelta che le “anime morte del Pds” non sono in grado di affrontare. Diverso sarà nella Cgil nonostante “l’involuzione morale”, i “giochetti politici” del capo della componente socialista, Ottaviano Del Turco, o la “demagogia delirante” di Fausto Bertinotti, il più citato nei diari.

Qui l’azione di messa “in salvo” passa per lo scioglimento delle componenti partitiche e per un dibattito interno rimodulato sul “programma”. Sarà questo a stabilire maggioranze e minoranze. E sul programma Trentin guarda alla Rivoluzione francese, al primato della “libertà” sulla “uguaglianza”. Più Robespierre che Marx anche se la tematica democratica va legata al movimento operaio in un binomio di valori. Nasce il “sindacato dei diritti” e, in pieno travaglio comunista per il cambio del nome, propone a Occhetto “il Partito del Lavoro”. Non sarà ascoltato e l’ex segretario del Pci, scrive Trentin, collocherà il Pds “alla destra di Craxi”.

Della controversa firma nel luglio ‘92, all’accordo sulla scala mobile e della paura di essere additato come responsabile del fallimento finanziario del Paese, si è già scritto molto. Meno dei giudizi dati sui protagonisti: la “miseria” di Amato e del suo “squallido” governo, Luigi Abete, “democristiano, piccolo capitalista assistito”, la “miseria delle reazioni elettoralistiche di gran parte del Pds”.

Ma al di là del lascito sindacale, con errori e contraddizioni, i Diari restituiscono più ampia la dimensione culturale, etica e intellettuale di un dirigente che ha intravisto inascoltato una crisi e una strada da intraprendere, quella della ricerca progettuale. Nessuna delle forze nate in quel bivio storico l’ha mai tentata. Non è un caso se la sinistra oggi non esista praticamente più.

Facebook e Google, killer di editori e giornali

Intervista ad Alessandra Ravetta, condirettrice di ‘Prima comunicazione’ (Il Fatto, 11 gennaio 2016)  

Quarant’anni fa nasceva Repubblica , il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, oggi all’attenzione per il recente cambio di direzione tra Ezio Mauro e Mario Calabresi e per l’annoso rapporto tra informazione e potere. In questi quarant’anni il mensile Prima comunicazione si è dedicato con scrupolo ad analizzare quel rapporto. Alessandra Ravetta è il condirettore del mensile e oltre ad affiancare il direttore Umberto Brunetti, tra la chiusura di un numero e l’altro si occupa di tutto: “Condirettore ed editore”.Il giornale, il cui ultimo numero è dedicato proprio a Repubblica, ha resistito per decenni e ancora oggi è lì a fare le pulci all’informazione e ai poteri, con spirito critico.

Come è cambiato il rapporto tra informazione e politica in questi 40 anni?

“Molto perché sono cambiati i protagonisti e perché c’è Internet. Il potere è più diffuso. Non ci sono solo i pochi player di inizio anni 70, i grandi padroni del mondo dell’industria che investivano nei media per condizionare e avere ruolo rispetto alla politica”.

Quei potentati controllavano tutto?

“La Rai era in mano alla politica, non c’era ancora Mediaset e i giornali si dividevano tra il Corriere dei Rizzoli, il gruppo Monti-Riffsser, la Montedison, Perrone. Allora coniammo la definizione dei ‘signori’ a capo dei propri castelli”.

Castelli?

“Quando Carlo Caracciolo, del gruppo Espresso, comprò le testate locali facemmo un numero in cui l’Italia era suddivisa in tanti castelli, ognuno in mano a un ‘signore’ Si capiva così quanti ne avesse Caracciolo o quanti Riffser, il ‘signore’ di Toscana e Emilia Romagna che con suo nonno arrivava fino a Livorno. Tutto questo c’è ancora oggi ma la nascita di Internet ha ridimensionato il fenomeno. Oggi occorre dividere la capacità informativa con una miriade di strumenti”.

La rete ha distrutto i poteri forti?

“Diciamo che la Rete ha reso più uguali i potentati. Mentre prima ci misuravamo solo tra testate e giornalisti, ora dobbiamo fare i conti con quello che scrivono moltissimi altri. È un mondo molto più competitivo e democratico. Non sono assolutamente d’accordo con le classifiche di ‘Reporter sans frontières’ che ci vedono in basso nella classifica sulla libertà di stampa. In Italia c’è un giornale come il Fatto e uno come il Foglio; sopravvive il manifesto o, nel nostro piccolo, anche noi.

E il rapporto con la politica?

“Negli ultimi anni è molto cambiato. Sono tutti meno potenti. Anche i giornalisti. Fino alla fine degli anni 90 erano un potere. Tanto che venivano superpagati e avevano contratti convenienti, molto onorevoli, proprio perché erano tenuti in grande considerazione. Potevano creare dei sommovimenti, fare dei danni ai sistemi consolidati. Era un mondo che contava molto e che negli ultimi anni si è depotenziato in maniera spaventosa. Una volta la Fnsi (Federazione nazionale della stampa) aveva un ruolo notevole, oggi non più.Una volta c’era anche una forte Unità. Infatti, il Partito comunista italiano ha investito risorse enormi sull’informazione, pensi ai debiti fatti per l’Unità o per Paese Sera. Ciascuno cercava di avere i propri mezzi per comunicare con le proprie aree di influenza, fossero politiche oppure quelle della società civile. Eppure quel giornale, anche vendendo fino a mezzo milione di copie, non era considerato dagli investitori pubblicitari. Erano dei nemici per strutture come la Fiat oppure la Montedison”.

Anche oggi la pubblicità resta il problema numero uno. Poca a molti e molta a pochi.

“La pericolosità risiede ancora nel modo in cui la pubblicità viene distribuita. Un certo tipo di giornalismo di battaglia non è considerato utile per promuovere certi prodotti. Ma il vero rischio, il vero problema che abbiamo davanti è che Internet non produce ricavi importanti nonostante tutti gli investimenti realizzati su questo strumento. E questa è una catastrofe. Investiamo su un mezzo fondamentale che ha un costo importante ma che rende sempre meno”.

Anche la Rete, quindi, non è solo libertà e progresso?

“Dal punto di vista di chi controlla le risorse – alla fine siamo sempre lì – questa fonte si sta impoverendo o comunque diventa sterile e i grandi player sono Google e Facebook, colossi sempre più mostruosi. Rischiano davvero di diventare i nostri killer”.

C’è chi pensa che sia la libertà in assoluto, si veda il caso di Ilaria Cucchi che pubblica su Facebook senza passare per i giornali.

“È indubbio che siano strumenti di grande libertà e che dà a la Cucchi la possibilità di autodeterminare la propria informazione. Non lo nego. Dico però che la Rete e i colossi che la dominano sono delle spugne che assorbono tutto il flusso economico della comunicazione. Che si accentra e diventa scarso per l’informazione professionale. È utile la foto su Facebook ma anche che il Fatto scriva i suoi pezzi su quello che fa la Cucchi. L’informazione professionale ha una sua importanza, su questo non ci sono dubbi. Soprattutto se lo fa in buona fede.

Prima comunicazione nasce nel 1973: com’era l’informazione di allora?

Prima comuinicazione è stata il prodotto del ’68 quando la borghesia di sinistra non ne poteva più del mondo in cui si viveva. Un mondo molto bigotto e reazionario. Nasciamo con soci manager dell’Olivetti, persone del Psi o del Pci, giornalisti illuminati – si pensi a Oreste del Buono o a Giorgio Bocca – che avevano una visione del mondo e rappresentavano un piccolo mondo antico. Piero Ottone veniva da noi a fare i dibattiti con Bocca sulla libertà di stampa”.

È in quel contesto che nasce Repubblica.

“Infatti nasce come atto di rottura. Ma anche la nascita del Giornale, di destra ma non bigotto, costituì una rottura. Noi consideravamo il suo giornale terribile dal punto di vista politico ma Indro Montanelli era bravissimo e anche loro sono stati un elemento di novità. La differenza è che dopo poco tempo hanno dovuto cedere a Berlusconi. Ma anche Repubblica ha avuto inizi faticosi: la Mondadori voleva scappare perché il giornale non decollava. Poi ha cominciato a funzionare”.

Perché?

“Perché Scalfari ha capito che il suo target era quella parte del Pci, o della sinistra borghese, che voleva cambiare le cose in Italia ed è diventato il portabandiera di quel mondo facendo peraltro un bellissimo giornale”.

Quando avviene la svolta?

“Molti pensano sia legata al rapimento di Aldo Moro ma in realtà ha pesato molto la crisi del Corriere della Sera in seguito allo scandalo P2. Il giornale di Scalfari arriva a superare il ‘Corriere’ che era diventato l’ house organ di una banda di deficienti.”

Non erano pericolosi?

“Sì, certo che lo erano. Ma avevano una visione del mondo che non permetteva di fare dei bei giornali. Diciamo che erano dei “cattivi” piuttosto retrogradi.

Repubblica cresce anche quando diventa il giornale dell anti–craxismo.

“Quello che l’ha reso potente è stata la capacità di scegliersi nemici politici con grande determinazione e di creare una contrapposizione fortissima. È avvenuto con Craxi ed è avvenuto in forma strepitosa con Berlusconi. Hanno sempre fatto un giornale molto antagonista. Oggi molto meno. Ma oggi o scegli di essere il nemico di Renzi, e voi fate bene dal punto di vista del marketing visto che siete tra i pochi che lo mazzolano, oppure è più difficile”.

Come è cambiato tutto questo con l’avvento di Berlusconi?

“Berlusconi è sempre stato un personaggio molto determinato, molto furbo e molto intelligente. Forse è stato più intelligente nella sua fase imprenditoriale che in quella politica”.

Avevate pubblicato un’intervista in cui rispondeva solo con un “sì ” o con “n o” alle domande salvo una in cui si poteva dilungare.

“Lo ha costretto Brunetti. Siccome era un fiume in piena, per cercare di rendere l’intervista leggibile Brunetti si inventò quel format. L’obiettivo era quello di contenere un Berlusconi molto ridondante e anche molto determinato sul fronte delle iniziative.”

Cosa lascia sul piano dell’informazione?

“Ha fatto grossi danni alla Rai e, in parte, alla sua azienda. Panorama, ad esempio, considerata uno strumento di propaganda personale, si è immiserita. Mondadori, invece, ha potuto continuare a essere libera perché non lo ha mai interessato. Lui puntava sull’informazione immediata. L’altra cosa che Berlusconi non ha capito per niente è Internet”.

E Renzi?

“Lui sa benissimo che la Rai è uno strumento importantissimo per fare politica. E sa di non avere antagonisti”.

Il fatto giornalistico più interessante di questi anni.

“Non ci sono episodi unici ma tante storie onorevoli di gente che si è impegnata. Per esempio quando il Fatto è nato, anche se non avevamo rapporti con la vostra direzione , l’abbiamo considerato una cosa molto positiva. Come anche Sky che ha portato in Italia una professionalità televisiva straordinaria. Una cosa bella è stata la nascita di Repubblica o, se mi è consentito, quella di Prima comunicazione”.

Le risorse fondamentali dell’informazione per reggere nel futuro?

“Essere persone perbene, cercare di fare bene il proprio lavoro. Avere chiaro il problema del conflitto di interesse, non solo quello di Berlusconi. In Italia resta un problema irrisolto e tutti fanno fatica a capirlo. Mentre nell’informazione è una categoria fondamentale.”

Friedman-Berlusconi e il bunga bunga è solo una sala da pranzo

(dal Fatto del 19 ottobre)
“Sono un giornalista americano, chi sono io per giudicare Berlusconi?”. Alan Friedman ha presentato così, a Ballarò, il suo libro-biografia su Berlusconi, My Way. Un libro in cui, nell’introduzione, si legge dell’amore smisurato del giornalista “americano” per l’intervista Frost/Nixon (un cult del giornalismo mondiale) o per il caso Watergate.

Eppure, di quell’epopea, nel libro non c’è traccia. David Frost mise Richard Nixon a nudo, lo lasciò parlare, portandolo al punto della perdizione fino a quando, fissando la telecamera, ammise, di fatto, le proprie colpe. Friedman, invece, ammicca, conforta, terge il sudore. Accarezza la nostalgia del protagonista, ne sospinge le previsioni.
Nemmeno la vena poetica di Sandro Bondi avrebbe potuto produrre la quantità di aggettivi superlativi che l’emulo di Bob Woodward produce in 390 pagine. Se Berlusconi sta parlando piano, è “ispirato”, se “scende in campo” pronuncia un discorso “elettrizzante”, le sue capacità di comunicazione sono “leggendarie”, se sprona l’ex allenatore del Milan, Inzaghi, lo fa con una voce “così profonda e risonante che sembra provenire dagli anni in cui suonava il contrabbasso nell’orchestra di Fedele Confalonieri”. Dopo aver parlato di donne per un’ora, “è affamato”. Osservato nella tenuta di Arcore “ha un’aria romantica mentre con alcuni amici riflette sulla sua vita”.

Il nostro “americano a Roma” dice di aver voluto portare i lettori dentro la vita di Berlusconi, “il Berlusconi vero, quello che non avete mai visto”. E, siccome il mestiere lo conosce, offre squarci di vita vissuta. La “stanza dei divani” a Villa San Martino, la scena dell’elicottero che atterra a Milanello, l’angolo degli impianti lussuosi in cui si fa la barba e “si rinfresca un po’”. Del pranzo del lunedì, quello in cui Silvio fa il punto con l’entourage più ristretto, si intravede la disposizione a tavola: “Berlusconi irrompe (sic) nella sala da pranzo e abbraccia Marina. Dall’altra parte del tavolo Confalonieri alza gli occhi dal piatto e grida un saluto, i manager Fininvest prendono posto di fronte a Berlusconi che adesso ha Confalonieri alla sua destra e Marina alla sinistra e all’altro capo si accomoda in silenzio al posto che gli stato assegnato Niccolò Ghedini”. Quando a metà del pranzo compare Pier Silvio “prende posto accanto a sua sorella Marina”.

La squadra è schierata. Nella vita di Berlusconi è quasi sempre la stessa anche se mancano due uomini decisivi: “uno degli alter ego più importanti” di Berlusconi, “quasi sullo stesso piano di Fedele Confalonieri per vicinanza e amicizia”, Adriano Galliani. L’altro, invece, è in galera ma “è la migliore persona che si possa immaginare” dice Berlusconi parlando di Marcello Dell’Utri: “Sono convinto che l’unica ragione per cui è stato condannato e messo in galera è perché è amico mio”.
Dal libro, misteriosamente, quasi scompare l’ombra politica dell’ex Cavaliere, “l’eminenza grigia” Gianni Letta. Se a Confalonieri sono riservate 41 pagine e a Galliani 24 Gianni Letta deve accontentarsi di 6. La prima volta che viene citato si ricorda che “nell’aprile 1993 (…) ammise di aver personalmente infilato 70 milioni di lire in una busta e di averli mandati con un fattorino al segretario del Partito socialdemocratico”. Un omaggio degno di una fucilata.
Non mancano aneddoti gustosi, come quello riferito alla “culona inchiavabile” e che Berlusconi, prendendosela con Il Fatto, definisce la fonte di tutti “i miei problemi con Angela”. Quando Berlusconi incontra l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder quello “con un calice in mano”, grida “Silviooooo, hai fatto benissimo. È totalmente vero”.
Oppure l’amicizia con Gheddafi: “Ogni volta che andavo in visita in Libia mi imbarazzava con la sua generosità. Una volta mi donò una famiglia di cammelli, padre, madre e cucciolo”. Di Sarkozy “preferisco non parlare”, memore di quell’incontro in cui, dopo avergli porto la mano, “lui mi fissa, e si rifiuta di stringermela. Anzi, mi sposta il braccio, mi spinge il braccio di lato…. Nessuno mi ha mai fatto una cosa del genere”.

La versione è sempre quella di B. Che non si smentisce mai. L’origine dei soldi, ad esempio, è liquidata in poche battute. “La stampa italiana, e molti magistrati, alimentano voci” scrive guardingo Friedman, “sui primi progetti immobiliari, finanziati da misteriosi capitali svizzeri… Chi erano i finanziatori occulti di Berlusconi?”.
Berlusconi non può che cedere: “Abbiamo ricevuto alcuni finanziamenti da fiduciarie di Lugano perché alcuni investitori, come Carlo Rasini, possedevano legalmente conti di deposito in Svizzera”. “Ma sapete una cosa…” continua Berlusconi: “Ci sono state tante di quelle indagini, un sacco di inchieste. E non è mai saltato fuori niente di irregolare”.
“Quando morirò, dice ai suoi figli, vendete pure tutto ma non vendete il Milan e questa casa, Villa San Martino”. Dal libro si capisce bene che ci tiene. È il quartier generale, la base di ogni scorribanda. Friedman lo sa e così relega a una frase – “l’acquisto rimane oggi un oggetto di polemica per i suoi critici” – quell’incredibile storia fatta di cavilli, raggiri legali e alambicchi con cui la marchesa Casati Stampa si vide sfilare, per due soldi, la tenuta. Al nome di Vittorio Mangano, “il sorriso di Berlusconi si fa intenso” e mostra “un velo di nostalgia”, quasi un filo di commozione.
Infine, il bunga bunga “Berlusconi si offre come guida alla sala “cult”. Si alza, sfodera tutta la sua spavalderia, ruota teatralmente verso sinistra e ordina: “Mi segua!”. Attraversa un soggiorno, apre un’altra porta e lì “con un gesto di un d’Artagnan, o del presentatore di uno dei suoi varietà telesivivi, Berlusconi apre la porta” (sic). “È proprio questa la sala del bunga bunga?” chiede il giornalista: “Non una camera da letto ma un tavolo extralarge circondato da quadri antichi e specchi barocchi?”. Di colpo il lettore dimentica il presente, Ruby resta la millantatrice che era, Noemi un’invenzione di Veronica Lario, Patrizia D’Addario scompare nelle nebbie, e infatti nel libro non è mai citata; le “olgettine” solo amiche in difficoltà che “ho sempre voluto aiutare”, e grazie a un giornalista d’assalto, in grado di aggredire il potere come nessuno, scopre quello che non avrebbe mai sospettato: “La sala del bunga bunga è una sala da pranzo”.
E come un Alberto Sordi di Un americano a Roma, sicuro e convinto delle proprie ragioni, Alan Friedman sogghigna beffardo dentro di sé: “A’ Frost, m’hai provocato e io me te magno!”.

Le diecimila poltrone dei sindacati

Pubblicato sul Fatto quotidiano del 24 agosto

Gli stipendi d’oro dei sindacalisti fanno scandalo. Ma costituiscono solo la punta di un iceberg più corposo. I 336 mila euro di Raffaele Bonanni (l’anno prima di andare in pensione), i 256 mila di Antonino Sorgi, dell’Inas-Cisl o i 262 mila euro del segretario della Fisascat-Cisl, Pierangelo Raineri (262 mila), fanno impressione. Ma non si tratta solo di furbizia o malversazione. Certi redditi sono possibili anche per l’enorme quantità di enti, fondi, comitati che affiancano la vita del sindacato, di cui poco si conosce e che il Primo Rapporto sugli Enti bilaterali redatto da Italia Lavoro (767 pagine) aiuta a capire meglio anche se i rivoli sono infiniti come dimostra il caso degli Enti di formazione che vedremo più avanti.
Bilaterale a vita
Sono più di 10 mila le poltrone “bilaterali”. Gli Organismi da cui derivano nascono nei contratti di lavoro ed erogano servizi di assistenza previdenziale, sanitaria, formazione, sostegno al reddito. Sono per lo più “associazioni non riconosciute” che non presentano bilanci pubblici e, soprattutto, non sono sottoposti a nessun controllo.
Alcuni esulano dalla definizione istituzionale come l’Enasarco che gestisce la previdenza degli agenti di commercio, ma sempre in base a un accordo tra le parti sociali. Uno status ancora differente è quello dell’Inpgi, l’istituto previdenziale dei giornalisti, che pure è controllato dalla categoria. Ci sono, poi, i Fondi previdenziali, quelli sanitari, i Fondi per la formazione professionale. Generano presidenze ambite, vicepresidenze ben retribuite, gettoni di presenza a piovere.

Una rete finanziata dal “monte salari” (anche se formalmente sono le imprese a versare i contributi) con un prelievo dello 0,30 -0,50% in busta paga che può arrivare all’1%. Per i fondi previdenziali e sanitari ( i primi sotto il controllo del Covip e i secondi dell’Anagrafe del ministero della Salute) si arriva anche al 3-4%). I 536 fondi previdenziali, nel 2013, gestivano 104 miliardi di euro per 5,8 milioni di iscritti. I 260 fondi sanitari avevano 7 milioni di iscritti e i 545 Enti bilaterali (di cui solo 29 nazionali) abbracciano la gran parte del lavoro dipendente. Ci sono poi i 21 Fondi Interprofessionali, una serie di Fondi di solidarietà regolamentati dalla legge Fornero, e altre strutture minori. Si tratta di oltre 1300 organismi in cui, nei consigli di amministrazione, non ci sono mai meno di sei membri (tre per Cgil, Cisl e Uil e tre di parte datoriale). Più spesso si supera il numero di dieci. Da qui, la cifra di oltre 10 mila poltrone più o meno retribuite. Quanto?
Posti da 70 mila euro
Secondo un studio della Filcams-Cgil, sindacato del commercio in cui gli Enti bilaterali abbondano, “i compensi per la presidenza e gli altri organi variano nelle diverse realtà (…) fino a raggiungere indennità elevatissime – 70 mila euro annui – per la Presidenza”. I regolamenti sindacali imporrebbero di versare gettoni e indennità alla propria associazione ma spesso non accade. Oppure non ci sono le sanzioni. Quel che è peggio, nota la Filcams, è che la quantità di risorse destinate ai servizi “non supera quasi mai il 50% dei contributi incassati”. Soldi sicuri per i super-stipendi, meno per i servizi da erogare.
Uno dei nomi reso pubblico da Fausto Scandola, Pierangelo Raineri, è segretario della Fisascat Cisl, consigliere dell’Enasarco, consigliere del fondo di sanità integrativa Est, presidente della cassa di assistenza sanitaria Quas. I suoi 262 mila euro si spiegano anche così. Un altro caso è quello di Brunetto Boco, segretario della UilTucs ma anche presidente dell’Enasarco, incarico per il quale percepisce 135.324 euro lordi annui a cui aggiungere 270 euro per ogni seduta del Cda. L’Enasarco ha in bilancio la bellezza di 1,3 milioni di euro per il funzionamento dei suoi organi statutari (48 mila euro di Raineri vengono da qui). Ma Boco è anche vicepresidente del fondo Est, che ha messo a bilancio 420 mila euro per il funzionamento degli organi. Il suo reddito è quindi paragonabile a quello dei dirigenti Cisl contestati.
Il Fonchim (chimici), primo fondo italiano con 4,7 miliardi di patrimonio gestito, è presieduto dal professor Adriano Propersi, indicato dalle imprese, mentre il vice è il sindacalista Femca Cisl, Paolo Bicicchi che, prima di passare al Fonchim era vicepresidente di un altro fondo, il Pegaso. Nel Cda, per la Cgil, siede Alberto Morselli che è stato fino al 2012 il segretario generale della categoria. Fonchim destina agli organi statutari 588 mila euro annui e spende per la gestione 1,2 milioni di euro. Il Fondo Cometa, dei metalmeccanici, è presieduto dall’ex segretaria Fim, Annamaria Trovò, ha dodici componenti per il Cda e spende per i suoi “organi”, 250 mila euro annui più 1,1 milioni per il personale.
Giornalisti manager
È invece un ente di diritto privato controllato dal ministero del Lavoro, l’Inpgi, l’istituto dei giornalisti il cui Cda è formato da 16 componenti di cui 11 eletti nella categoria. Il presidente, Andrea Camporese – indagato per il caso Sopaf – guadagna 255.728 euro annui a cui vanno aggiunti 60 mila euro di “ristoro del danno da aspettativa non retribuita”. Totale, 315 mila per un istituto per il quale si è appena resa necessaria una manovra di aggiustamento. Camporese è stato segretario dei giornalisti del Veneto e il suo vice, Paolo Serventi Longhi, 43.148 euro di indennità, è stato il segretario della Fnsi.
Trattandosi di centinaia e centinaia di enti, la pratica del doppio incarico è molto diffusa. Come Raineri, quattro incarichi anche per Paolo Andreani, segreteria UilTucs, vicepresidente della Coopersalute, presidente di Quadrifor, consigliere Quas; Ferruccio Fiorot, segreteria Fisascat, presidente dell’ente Ebinter, consigliere dell’ent Ebnter, direttivo nel fondo Est; Fabrizio Russo, della Filcams-Cgil, è nel consiglio Ebinter, in quello di Ebnter e nel Comitato del fondo Est. Curioso il caso di Michele Carpinetti, Cgil, presidente di Ebnter, consigliere di Ebinter ed ex sindaco di Mira, cittadina veneta dove è stato sconfitto dal Movimento 5 Stelle.
Fondi senza controllo
Fondimpresa è il più grande Fondo di formazione professionale. Sono in tutto 21, gestiscono circa 600 milioni l’anno derivati dal contributo dello 0,30% sul monte stipendi versato dalle aziende all’Inps che a sua volta lo gira ai fondi. Fondimpresa nel 2014 ha gestito 363 milioni, il 47% del totale. Alle spese di gestione ha destinato oltre 5 milioni, mentre 347 milioni sono andati direttamente alla formazione. I 2,5 milioni stanziati per “personale e organi statutari”, però, rendono comunque appetibile il suo Cda. Non a caso presieduto dall’ex presidente di Confindustria, Giorgio Fossa, mentre Cgil, Cisl e Uil vi hanno designato un ex segretario di categoria, Bruno Vitali della Fim-Cisl, il responsabile dei fondi interprofessionali della Cgil, Luciano Silvestri e l’ex segretario confederale Uil, Paolo Carcassi. I Fondi interprofessionali attualmente non rendono conto a nessuno. Al loro interno può capitare, e capita spesso, quello che è avvenuto alla Fisascat (ancora!) di Roma e Lazio il cui segretario, Giuseppe Pietro Janni (ora fuoriuscito) tramite una srl, la So.GE.L. controllava l’ente di formazione (Micene Srl) che gestiva i corsi di formazione appaltati dal suo stesso sindacato.
Ma si può fare anche di meglio e senza occhi indiscreti. Si prenda il caso degli Enti di formazione finanziati dalla legge 40/1987. Il Fondo presso il ministero del Lavoro ammonta a circa 13 milioni di euro e viene erogato a enti emanazione dei sindacati o del movimento cooperativo. Uno di questi è lo Ial controllato per il 40% dalla Cisl nazionale e per il resto dalle strutture regionali e di categoria. Nel 2014 ha ottenuto circa 1,3 milioni di contributi, la metà del suo fatturato. Lo Ial finì sotto i riflettori di Report per un presunto finanziamento alla squadra di calcio del Palermo quando era presidente Sergio D’Antoni. Il suo amministratore è Graziano Treré già segretario organizzativo della Cisl quando la dirigeva lo stesso D’Antoni. Ora è l’amministratore unico e guadagna 177.593 euro l’anno. Nella relazione all’assemblea annuale, che ha dovuto approvare 380 mila euro di deficit, è stato molto esplicito: “Occorre convogliare tutta l’attività formativa a cui la Cisl può accedere sul fronte della bilateralità e dei Fondi professionali verso lo Ial”. Senza “forme di anomala concorrenzialità”. Poi si rallegra per l’acquisizione della società Anapia, impegnata nella formazione professionale veneta: “Beneficia di un finanziamento annuale ormai consolidati dalla Regione Veneto di 550 mila euro e di un altro da 390 mila”. Bingo.

Casa del mutuo soccorso, un’azione concreta di coalizione sociale

Cosa può fare la Coalizione sociale? Una prima risposta a questa domanda è stata data domenica 14 giugno alla festa della Fiom milanese che si è tenuta nella fabbrica recuperata della Rimaflow a Trezzano sul Naviglio: Case del Mutuo soccorso. E così, al termine di un dibattito che ha visto la partecipazione di circa 500 persone, Maurizio Landini ha avuto l’onore di tagliare il nastro della prima Casa del Mutuo soccorso nata in una fabbrica dismessa e recuperata e interna al progetto della Coalizione sociale.

La Rimaflow è ormai un’esperienza simbolo di cui si occupa anche il presidente boliviano Evo Morales che la scorsa settimana ha cambiato la propria agenda milanese per incontrare gli operai Rimaflow, discutere della loro situazione e farsi regalare anche il loro celebre “Rimoncello”, il limoncello fatto in fabbrica.

Gli operai, tra l’altro, proprio dopo aver resistito per oltre due anni e aver individuato una nuova attività produttiva in grado di dare loro un lavoro e di ripristinare un’attività produttiva negli spazi abbandonati dalla vecchia Maflow – scappata via dall’Italia in fretta e furia e portandosi dietro anche i macchinari – sono finiti sotto un violento, e improvviso, attacco da parte del Comune (Pd) che, in sintonia con Unicredit – proprietaria dell’area – potrebbe aver individuato nuove attività nell’area e vede malvolentieri l’attivismo sociale dello spazio occupato. Il 28 maggio, quando in Prefettura si è tenuto l’incontro decisivo tra municipio, proprietà e Rimaflow, per firmare l’accordo definitivo di gestione della fabbrica (anche grazie al supporto di Libera) il Comune ha scelto di non presentarsi (la situazione si è poi regolarizzata in seguito alle pressioni dei lavoratori e dei cittadini con un incontro avvenuto il 19 luglio).

La proposta della Casa del Mutuo soccorso è stata illustrata a Landini e alla Fiom milanese – che ha tenuto la sua festa provinciale proprio dentro i capannoni riempitisi fino a tarda sera – dalla Rimaflow riprendendo un articolo poco noto dello Statuto dei lavoratori, l’articolo 11, secondo il quale“le attività culturali, ricreative ed assistenziali promosse nell’azienda sono gestite da organismi formati a maggioranza dai rappresentanti dei lavoratori”. Con questa norma si sono costituiti i Cral aziendali diventati nel tempo dei dopo-lavori svuotati di contenuto ma la loro origine risale, spiegano a Rimaflow, alleSocietà Operaie di Mutuo Soccorso.

Da qui la Casa del mutuo soccorso, aderente alla Federazione Italiana del Tempo Libero, con l’obiettivo di “rimettere nelle mani dei lavoratori e delle lavoratrici gli strumenti pratici di organizzazione della solidarietà”.

Tra le attività progettate ci sarà lo Spazio Fuori Mercato, una logistica per mettere direttamente in collegamento i piccoli produttori agricoli e i consumatori, tramite il ruolo dei Gruppi di acquisto solidale. La cucina popolare in fabbrica con i locali già ampiamente preparati e ristrutturati, salute e assistenza per chi ne ha bisogno (dentista sociale, assistenza psicologica), scuola popolare, libri usati, culture nelle sue varie forme ma anche prestiti in denaro (anche tramite la banca ore del lavoro), recupero di stabili sequestrati alla mafia e ogni altra attività utile sul territorio.

La proposta è stata salutata molto positivamente da Maurizio Landini che, assieme a Evo Morales, Giuseppe De Marzo di Libera, Paolo Rossi (presente alla festa della Rimaflow per lo spettacolo conclusivo) ha firmato l’appello di solidarietà alla fabbrica ipotizzando anche forme ulteriori di iniziativa come “mettere in discussione i nostri conti correnti alla Unicredit, in fondo è l’unico linguaggio che capiscono”.

Landini nel suo intervento, che ha concluso la serata della Fiom, ha ribadito i punti della Coalizione che più gli stanno a cuore: non sarà un partito, farà politica, punta a unire ciò che il capitalismo divide e rappresenta una possibilità per far ripartire le lotte e conquistare, da capo, i diritti che sono stati cancellati. L’auspicio è quello che si costruiscano coalizioni sociali territoriali in cui non si guarda ai propri interlocutori per quello che sono ma per cosa vogliono fare e dove vogliono andare. “Io ho avuto la fortuna di lavorare grazie a diritti conquistati da quelli prima di me”, ha concluso Landini, “per questo mi sono chiesto: cosa lascio a chi c’è dopo? Dobbiamo avere il coraggio di provarci peggio di così non può andare”.

La Casa del Mutuo soccorso è stata una prima risposta concreta alle domande poste dalla Coalizione sociale nello spirito del “primo movimento operaio” evocato all’assemblea nazionale del Frentani da Stefano Rodotà. Nel suo intervento il professore già candidato alla Presidenza della Repubblica aveva ricordato il canto delle mondine che diceva: Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, abbiam delle belle buone lingue, e in lega ci mettiamo“. In lega, cioè in coalizione, recuperando l’intuzione originaria del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici: il mutuo soccorso.

Coalizione sociale con Piperno e Scalzone: chi ha paura degli anni 70?

C’ero alla Coalizione sociale di sabato e domenica scorsa e ho visto partecipare sia Franco Piperno che Oreste Scalzone. Nei miei articoli non ho registrato la loro presenza così come non ho registrato uno ad uno il migliaio circa di partecipanti. Perché i due fondatori di Potere operaio all’inizio dei 70, protagonisti di una stagione pesante della politica italiana, entrambi con guai giudiziari rilevanti e su cui si può legittimamente esprimere i giudizi che si vuole questo sono stati in quella sede: due partecipanti. Due, singole, persone che hanno girovagato tra le sale – uno anche in condizioni difficili, viste le stampelle e gli acciacchi – ascoltato gli interventi, salutato chi li ha riconosciuti, del tutto anonimi tra gli anonimi.

Accostarli alla Coalizione sociale lanciata da Maurizio Landini, come ha fatto Matteo Renzi – e prima di lui il Corriere della Sera in un suo editoriale – lascia di stucco. Non tanto per l’operazione, poco ambiziosa, che cerca di inchiodare Landini a presunti “cattivi maestri, protagonisti, a detta di chi esprime quei giudizi, di una storia oscura e inaffidabile.
Quello che fa riflettere è che, ancora nel 2015, gli anni 70, i cosiddetti “anni di piombo” costituiscano il riferimento negativo, l’incubo che ritorna, il modello da cui fuggire. Come se, invece, fossero modelli da prendere in prestito il connubio affaristico, e in parte mafioso, in cui è finito una parte del Pd, le vicende spesso dimenticate del centrodestra italiano – tutto, compresi Salvini e Meloni che si ergono a oppositori – nel clientelismo affaristico e nei legami poco limpidi con i settori della malavita, senza dover citare i Dell’Utri o i Cuffaro. Sono questi gli esempi di novità, di bella politica, di “allegria” e felicità stile latinoamericano?
Se nel 2000 ormai avviato, un giovane premier di belle speranze deve agitare lo spauracchio di un settantaduenne Piperno o di un sessantottente Scalzone per contrastare i propri nemici politici, vuol dire che la narrazione si è inceppata. E l’assist offerto da editorialisti che difficilmente possono credere davvero che Landini sia influenzabile da ipotesi estremiste, può non bastare più. Eppure, questo paese sembra non possa uscire dal tunnel di una stagione che, in realtà, non è mai stata analizzata fino in fondo. Non almeno nella dimensione sepolta sotto la coltre del piombo e del fumo dove, invece, si sono alternate esperienze generose e formidabili che hanno permesso la più grande avanzata dei diritti sociali e politici che l’Italia abbia mai visto. Dallo Statuto dei Lavoratori(1970) al referendum sul divorzio (1974) dalla legge Basaglia(1978) all’avanzata del Pci (1976). Ma forse è proprio questo il problema.

Chi si arricchisce con Garanzia Giovani

Che il progetto Garanzia Giovani sia un flop è ormai assodato. Che lo stanziamento previsto dall’Unione europea, 1,5 miliardi per l’Italia, sia stato un affare per aziende private, agenzie del lavoro o Enti di formazione, è invece un fatto poco noto. Eppure, leggendo le circolari applicative, guardando i contratti che vengono fatti firmare ai giovani interessati, quelli tra i 15 e i 29 anni, i compensi previsti per chi si accredita al progetto e gli incentivi per chi assume, magari solo per sei mesi e poi ciao, sono indicati chiaramente. Si tratta di centinaia di milioni.

Lunedì sera, intervistato da Piazzapulita, l’amministratore di Manpower, una delle più grandi agenzie del lavoro del mondo, Stefano Scabbio, alla domanda su quali cifre la sua azienda ricavi dalla Garanzia Giovani ha parlato di un generico 1% del fatturato. Stando ai risultati pubblicati dal sito dell’azienda – 819 milioni di euro il fatturato italiano – si tratterebbe di circa 8 milioni. In realtà si tratta di una cifra molto superiore. Sia perché a godere della possibilità di accreditarsi a Garanzia Giovani e quindi lavorare come strutture di supporto ai giovani in cerca di impiego, ci sono diverse società (nel Lazio sono 14, in Calabria 21, per fare alcuni esempi), sia perché le possibilità di guadagno diretto sono molteplici e, spesso, di difficile individuazione. Cosa che, comunque, cercheremo di fare.

Come funziona. Garanzia Giovani è rivolta ai giovani tra i 15 e i 29 anni con l’obiettivo di proporre un’offerta di lavoro “qualitativamente valida” entro quattro mesi dalla presa in carico. Il progetto punta a valorizzare le esperienze fatte, i curricula, gli studi e, nel caso di non completamento degli stessi, di formarsi per proseguirli. È affidata alle Regioni che hanno predisposto dei piani attuativi specifici. I giovani che intendono usufruirne si rivolgono ai Centri per l’Impiego (Cpi) a livello provinciale dove ricevono “l’accoglienza” e usufruiscono del primo “orientamento”. In questa fase i Cpi si incaricano di “profilare” i soggetti, facendo conoscere il funzionamento di Garanzia Giovani e cercando di conoscere i giovani, le loro competenze e aspirazioni. A questo punto verrà proposto un percorso di inserimento personalizzato che spazia sulle varie offerte del programma: Formazione, Accompagnamento al lavoro, Tirocinio, Apprendistato, Servizio Civile, Autoimprenditorialità, Bonus occupazionale alle imprese. Qui, iniziano i conti di chi ci guadagna.

Al momento di accettare il percorso, l’utente firma un “Patto di servizio” con il quale entrano in gioco le società accreditate, gli enti di formazione o agenzie per il lavoro. Per capire come funziona si può prendere ad esempio il Piano di attuazione della Regione Lazio. Qui sono previste due misure, “l’orientamento specialistico, misura 1.C” e “l’accompagnamento al lavoro, misura 3”. Nel primo caso, l’orientamento viene condotto da un operatore del soggetto accreditato che per questo servizio ha un compenso di 35 euro l’ora. I programmi sono di 4 o 8 ore a giovane con compensi, quindi, di 142 euro e 284 euro per ogni giovane che usufruisce del servizio di orientamento. Ricordiamo che, al 29 aprile, i giovani che si sono registrati a Garanzia Giovani sono stati 542.369, quelli presi in carico sono stati 279.653 e quelli a cui è stata proposta almeno una misura 83.061. Le cifre vanno quindi commisurate su questi grandi numeri.

Molto più caro, invece, il servizio di “Accompagnamento al lavoro”. Qui la società è retribuita in due forme: ha un rimborso elevato in caso di “raggiungimento del risultato”, cioè la stipula di un contratto di lavoro ma, in subordine, ha una “quota fissa” in caso di mancato raggiungimento. Il rimborso è differenziato a seconda del tipo di contratto e del profilo dell’utente. Nel caso di un tempo indeterminato o apprendistato si va da 1.500 a 3.000 euro a utente (a seconda della difficoltà a collocare il soggetto interessato), nel caso di tempo determinato, apprendistato o somministrazione di 12 mesi si va da 1.000 a 2.000 euro che scendono, rispettivamente, a 600 e 1.200 se il contratto è tra i 6 e gli 11 mesi. La “quota fissa” invece, è stabilità al 10% delle cifre sopra descritte facendone una media: si tratta di 130-160 euro a utente.

L’intervento degli enti privati è rilevante anche nel percorso formativo, finanziato con 280 milioni e che prevede corsi tra le 50 e le 200 ore mentre la misura di “accompagnamento al lavoro” è finanziata con 205 milioni.

Poi c’è l’altro rivolo dei finanziamenti, il bonus occupazionale. Questa misura è finanziata con 190 milioni. Alle aziende che si fanno carico del contratto di lavoro proposto, viene riconosciuto un “bonus” consistente. A essere finanziati sono i contratti a tempo determinato per 6-12 mesi, a tempo determinato superiore a 12 mesi e a tempo indeterminato. In quest’ultimo caso, a seconda della difficoltà del soggetto, si va da 1.500 a 6.000 euro a lavoratore, mentre per i tempi determinati a 6 mesi si va da 1.500 a 2.000 euro e per quelli fino a 12 mesi da 3.000 a 4.000 euro. Si tratta di soldi freschi, che finiscono nelle casse delle imprese, non al lavoratore, e che possono essere cumulati con altri incentivi pubblici, ad esempio quelli per il contratto a tutele crescenti.

Poi ci sono altri incentivi cospicui. Da 2 a 3 mila euro per l’apprendistato di primo livello, fino a 6.000 euro per l’apprendistato di terzo livello. Infine, il tirocinio (minimo 300 euro) che viene erogato dalla Regione alle aziende (ma l’Inps non ha ancora sbloccato i pagamenti e c’è voluta la manifestazione dei precari della Coalizione 27 febbraio per far muovere il presidente Tito Boeri) che spesso utilizzano i giovani a tempo pieno.

Facendo il conto complessivo di come le Regioni hanno stanziato i fondi loro assegnati, si scopre che le voci Accompagnamento al lavoro (205) e Formazione (280) sommano 485 milioni di euro. Le voci Tirocini (300), Bonus occupazionale (190) e apprendistato (63) cumulano 553 milioni. Il resto se ne va per Servizio civile, accoglienza, autoimpiego, Mobilità professionale.

Il grosso della Garanzia Giovani se ne va così. A vigilare sembra non ci sia nessuno. I giovani disoccupati aspettano di avere un lavoro. Vero.